di Pippo Russo
Il cammino verso un’agricoltura socialmente più responsabile passa anche per l’acquisizione del concetto di benessere animale. Concetto che incorpora una visione di lavoro agrario più attenta al modo in cui gli animali conducono la vita quotidiana, con obiettivo di creare una più elevata e reciprocamente rispettosa integrazione fra elemento umano e elementi non umani nel lavoro di produzione agraria. Ma parlare di benessere animale significa anche inoltrarsi in un territorio complesso, a rischio di generare equivoci poiché soggetto a vasta interpretabilità. E proprio con lo scopo do provare a ridurre tale complessità abbiamo affrontato il tema con Rudi Dreoni, imprenditore dell’allevamento in Mugello nonché vicepresidente della CIA Toscana Centro.
“Ci sono tante sfaccettature da tenere in considerazione quando si parla di benessere animale – afferma Dreoni –. C’è innanzitutto la dimensione fisica del benessere animale, dunque il modo in cui l’animale viene trattato e alimentato. In secondo luogo, c’è un aspetto complessivo, che riguarda il modo in cui viene gestito l’allevamento, con particolare attenzione alla sicurezza. C’è poi da tenere in considerazione la differenza fra i tipi di allevamento. Per esempio, in Toscana si fa allevamento brado o semi-brado, mentre in molte regioni del Nord Italia vengono condotti allevamenti più intensivi. Dunque sono diversi i tipi di benessere che vanno garantiti, e sono a loro volta concentrati su fasi diverse dell’attività”.
Si presenta anche la questione del modo in cui i singoli operatori percepiscono e elaborano il concetto di benessere animale. Quali sono le principali difficoltà che lei vede su questo piano?
“Partiamo da un principio: se il mio animale sta bene, io sono il primo a trarne giovamento. Detto ciò, devo osservare che il mondo zootecnico spesso ha qualche difficoltà a recepire i cambiamenti. Forse c’è anche un clima culturale sfavorevole, per cui una maggiore attenzione diffusa verso i diritti del mondo animale porta a vedere in modo negativo il ruolo degli allevatori, e questo provoca negli allevatori un istinto difensivo. Aggiungo che l’età media degli allevatori è parecchio alta. Non c’è il ricambio generazionale che vediamo nei vigneti o negli uliveti, che fra l’altro sono settori più aperti al mondo. Queste due condizioni (ricambio generazionale e apertura al mondo) non vengono ritrovate nel mondo dell’allevamento e ciò rende più complicato recepire le innovazioni”.
Secondo il suo giudizio, a cosa è dovuta questa difficoltà di ricambio generazionale nel settore dell’allevamento?
“Per rispondere a questa domanda parto dalla mia esperienza nel settore. Ho cominciato da giovane e mi viene da dire che sono stato giovane nel momento giusto. Un periodo in cui non ci si lasciava impaurire dagli ostacoli. Adesso mi pare che la situazione sia diversa. Anche perché c’è un problema di redditività del lavoro che negli ultimi anni si è fatto molto pressante. E non bisogna dimenticare che le mucche mangiano 365 giorni su 365. Se io vado tre giorni in ferie ho bisogno di qualcuno che mi sostituisca. Invece per un giovane che arriva appena adesso nel settore, questo può essere un problema non da poco. Va anche ricordato che in Toscana c’è un altro elemento da tenere presente: quello della dimensione degli allevamenti. In questa regione c’è una prevalenza di allevamenti medio-piccoli a causa della condizione orografica, che ha una grande parte boschiva e altre, vaste, destinate a uliveto e vigneto. E alla piccola dimensione degli allevamenti si aggiunge l’anzianità delle strutture. Inoltre, molti allevatori sono stati costretti a smettere perché il problema della presenza dei lupi aveva cominciato a farsi stressante”.
Il tema della presenza dei lupi, unito a quello del benessere animale, è oggetto di visioni diverse fra chi fa il lavoro dell’allevatore e i movimenti ambientalisti. Qual è la sua opinione in proposito?
“Noi non siamo contro i lupi, o contro gli ungulati. Piuttosto siamo contro il non governo delle situazioni che portano questi tipi di animali a danneggiare il lavoro di agricoltori e allevatori. Fra l’altro vedo una sensibilità diversa a seconda che a essere attaccati dai lupi siano animali da reddito o da affezione. Se i lupi attaccano le pecore o le mucche, il senso di allarme rimane fra gli allevatori. Ma se i lupi attaccano un cavallo, allora scatta l’allarme. Ribadisco che c’è un problema di non governo del fenomeno e lo si vede anche nel caso degli ungulati. Che sono pericolosi non soltanto perché devastano i campi coltivati, ma anche perché per strada possono pararsi davanti a un’automobile o a uno scooter, con le conseguenze che possiamo immaginare”.
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